Il film vincitore di 4 premi Oscar è corale, scritto benissimo, diretto benissimo, è originale, mai scontato. E parla di noi molto di più di “Joker,” che ne ha vinti giustamente solo 2.
“Parasite” di Bong Joon-ho ha vinto 4 Oscar, tutti strameritati. Si è aggiudicato, prima volta per una pellicola non in lingua inglese, il premio come miglior film, ma anche quello come miglior film straniero, che era già scontato e che secondo i pronostici avrebbe dovuto essere l’unico. Poi quello come miglior regista, battendo la concorrenza di veterani come Scorsese, Mendes, Tarantino e Phillips, che non è proprio un veterano ma che ci sperava, dato il successo del suo “Joker”, che era il film con più candidature (11). E infine quello come miglior sceneggiatura. Se fosse stato un film americano con attori americani o inglesi, forse si sarebbe portato a casa anche il premio come miglior attore protagonista (o non protagonista) o migliore attrice protagonista (o non protagonista).
“Joker” ha vinto solo due statuette. Quella come miglior attore era scontata, sia per la grande interpretazione di Phoenix, sia per, a mio avviso, la poca consistenza degli sfidanti (forse solo Adam Driver poteva tenergli testa. Di Caprio per quanto bravo non lo meritava per questo personaggio, Jonathan Pryce che fa il papa? Ma per piacere. E Banderas? Già la candidatura è stata assurda). L’altro premio è stato per la colonna sonora, e ci può stare. Al limite si poteva aggiungere, o dare in alternativa a questo, quello per la fotografia, veramente bella, ma la statuetta è andata a “1917”. Non è stato quindi giudicato come miglior film, né come miglior sceneggiatura (seppur non originale, premio andato al geniale e commovente “Jo Jo Rabbit”), né come miglior regista. E questo è giustissimo, e rispecchia quella che secondo me è la realtà: “Joker” è un bel film, recitato da Dio, ma non è un capolavoro, è un film normale, un film drammatico come ce ne sono tanti, che non aggiunge niente di nuovo né a livello stilistico, né contenutistico. Non c’è l’impronta del regista, né dello sceneggiatore, l’unico a lasciare il segno è l’attore protagonista.
“Parasite” invece è più interessante, meno scontato, sia perché parla di una realtà a noi più lontana (ma in realtà non poi così tanto), la Corea del Sud, sia perché fonde commedia e thriller in un susseguirsi di scene imprevedibili. “Parasite” ci ricorda che la vera linea di demarcazione tra le persone sono i soldi. Non le ideologie, né le razze o le religioni, ma semplicemente la vera differenza è tra ricchi e poveri. Se sei ricco è più facile essere educato, di buon umore, gentile, ma allo stesso tempo, sotto sotto, pensi di essere meglio degli altri e di poterne disporre a tuo piacimento. E rischi anche di rincretinirti. Se sei povero sei rancoroso, cinico, diffidente, tirchio, sempre di malumore, sempre convinto che ti vogliano fregare. Ma allo stesso tempo sei in qualche modo più brillante, perché, si sa, la necessità aguzza l’ingegno.
La critica, la stampa, i media, i social, ci hanno venduto “Joker” come un film che parla di tutti noi, della nostra società attuale, del logorio della vita moderna, e bla bla bla. In realtà, la maggior parte delle persone che si identificano in Arthur Fleck sarebbero suoi carnefici, e quindi poi sue vittime, se egli esistesse veramente. Perché la maggior parte delle persone percepiscono come diverse, e quindi da evitare, le persone timide, chiuse, gentili, educate, che parlano poco, che non alzano mai la voce. La maggior parte delle persone considera positivo seguire il principio di mors tua vita mea e vivere come se fossimo nella giungla. Quindi il Joker siamo noi un cazzo.
Al di là degli abusi e dei problemi mentali, Arhur Fleck ha delle caratteristiche ben precise e ci sono veramente persone come lui. Anche Woody Allen, se non fosse famoso, sarebbe trattato di merda come lui, per le sue caratteristiche fisiche e mentali non assimilabili alla massa. Con la differenza che almeno Allen è un genio della comicità. Ma sono alcune persone, non tutte, non la maggior parte. Sono quelle persone che parlano piano, che stanno in disparte alle feste, che si annoiano in discoteca, che se non hanno nulla da dire stanno zitte, che si esprimono meglio coi disegni o la parola scritta che non a voce, che non amano stare troppo tempo al telefono, che si appassionano ai programmi televisivi, che non hanno molta vita sociale, che devono di dimostrare di non essere una giraffa per non finire allo zoo (non basta affidarsi al buon senso e alla realtà oggettiva dei fatti). Le vittime di Fleck sono una nevrotica, un collega stronzo che approfitta dell’ingenuità degli altri, due figli di papà che fanno i bulletti perché hanno bevuto un bicchiere di troppo. Cioè la maggior parte di noi. E, con quel finale lì, tutto il potenziale del film si sgonfia, la riflessione si disinnesca, nessuno pensa di cambiare atteggiamento dopo averlo visto.
Qua non si tratta di sparare a quello che si prende l’ultimo sacchetto di Nutella biscuit, che non fa la differenziata, che ti taglia la strada, che ti fa una multa, che ti rimprovera perché sei in ritardo, etc. Qua si tratta di sparare a quelli che hanno capito che sei un debole e per questo ti hanno preso a calci, per sentirsi più forti. Poche persone si possono identificare con Arthur Fleck, e la parte angosciante del film, per loro, è il messaggio secondo cui l’unico modo che hanno di farsi rispettare è diventare dei pazzi assassini. Ma nemmeno in quel caso si tratterebbe di rispetto, bensì di paura. Quindi, per questo tipo di persone, non c’è nessun modo di farsi rispettare e al contempo vivere una vita normale, da integrato. E invece, direi che un modo che non sia uccidere lo dovrebbero pur trovare.
Il fatto è che “Joker” deve per forza finire in quel modo lì, così scontato e sterile, perché deve raccontare le origini del personaggio dei fumetti. Il mondo dei comics è lo zucchero da mettere attorno alla medicina amara. Ma ne influenza anche la trama. Si tratta quindi di un film furbo, perché riesce a mettere insieme due tipi diversi di pubblico, quello da festival del cinema di Venezia, che avrà sicuramente visto e apprezzato “Taxi Driver”, “Il colore viola”, “Il petroliere”, “Requiem for a dream,” “Revolutionary Road”, e quello dei cinecomics, quello curioso di vedere se Phoenix può reggere il confronto con Nicholson e Ledger, se dentro ci hanno infilato in qualche modo Batman, se il look definitivo sarà quello del trailer o se sarà più simile ai fumetti. E la vera forza del film è che entrambi i tipi di pubblico saranno soddisfatti dopo averlo visto, perché si tiene in perfetto equilibrio tra l’autorialità e l’intrattenimento.
Ma proprio per questo è un film paraculo, cioè poco onesto intellettualmente, soprattutto se vuole fregiarsi (ma questo non lo fa il film, bensì i suoi stolti discepoli – “non c’è l’ho con Cristo”, scrive Nietzsche nell’Anticristo, “ma con i suoi seguaci”) di essere un capolavoro, perché non cammina sulle proprie gambe ma su quelle dei fumetti di Batman. E tra l’altro il suo messaggio è stato frainteso, come viene frainteso il gesto di Fleck nel film stesso, dal popolo-gregge, perché i cattivi sono sempre gli altri, i politici, i poteri forti, noi siamo sempre vittime e mai carnefici. E il grilletto premuto da Fleck è un modo di sfogare le nostre fantasie represse, come in un porno. Un ennesimo pretesto per non prendersi le proprie responsabilità affrontando la realtà.